Anche stavolta un lavoro pulito. Non ho lasciato tracce. A volte non c’è nemmeno bisogno di ripulire tanto. Il lavoro più grosso l’ha fatto il padrone di casa. Pensano di non aver lasciato più nulla. Poi trovano piccoli frammenti, insignificanti testimonianze e crollano. Allora mi chiamano per il colpo di grazia. Di solito quando arrivo stanno fuori dalla porta. Mentre sentono i rumori all’interno, il tramestio frenetico, sono a mordersi le nocche delle dita soffocando le lacrime. Preferiscono il dolore più immediato e sordo a quello diluito e continuo. A volte quando a qualcuno suggeriscono il mio nome, scoppia in una fragorosa risata. Non pensano che si possa arrivare a tanto. Non pensano che si possa eliminare definitivamente.
Fa orrore una cosa del genere. Perché spesso fa più comodo un dolore conosciuto. Se c’è qualcosa che ci ferisce e ci avvelena con lentezza ci abituiamo e non sappiamo rinunciare. Dicono che le dipendenze più pericolose siano la droga o l’alcol. Anche una ferita tenuta sempre viva, bruciata ogni giorno con gocce di ricordo, tenuta viva come un fuoco soffiandoci sopra, anche quella, beh mi creda, è una dipendenza mica da ridere. Quando mi chiamano poi hanno forti sensi di colpa. Vorrebbero tirarsi indietro. Cominciano con le domande mentre io monto l’attrezzatura. Guardano i pezzi, li scrutano. “Non gli faccia troppo male per favore, quanto ci vorrà?”, mi hanno chiesto una volta.
No, non gli faccio male. Ma per un attimo quando lo scovo, si chiede come ci sia riuscito. Pensava di essersi occultato bene, pensava che piano piano, si sarebbe nutrito ancora delle emozioni e dei ricordi. No, non gli faccio male, non subito. Poi emette urla belluine che nessuno può sentire quando capisce che il suo tempo è finito. Ma purtroppo, io lo so che è una battaglia eterna la nostra. Mi piace raccontare quando vinco, ma sono più le volte che trionfa lui. Perché la gente crede alla sua esistenza e non crede a me che posso terminarlo.
Lo so, non mi crede nemmeno lei. La sua perplessità si legge nelle rughe arcuate della sua bocca. Però ha creduto alle sue parole quando le ha pronunciate. Era tutta contenta di fronte alle sue dichiarazioni di eternità, di tempo passato insieme senza scemare mai la passione. E in quest’epoca di chat le parole sono facili, promettere è come respirare. Cosa importa se poi qualcuno ci crede? Cosa importa se lei pensava che sarebbe stata la storia della sua vita e per lui era una scopata di una sera?
No, mi creda, non mi chiamate solo voi donne. Anche gli uomini, quelli che sui social sembrano sempre felici nel trionfo di bicipiti, viaggi, libri che hanno scritto e che ostentano con il loro girarsi intorno urticante. Anche loro piangono e mi chiamano, perché a quel punto mi credono. Un killer? Se le fa piacere mi può chiamare così. Sono un killer. Ma preferisco definirmi un inventore. Io ho inventato il modo di trovare le tracce di un amore passato dentro una casa. Le faccio uscire dagli spazzolini lasciati distrattamente, dalla tazza di caffè preferita, dal lato dell’armadio dove c’era il suo spazio, dal cassetto che non si è più aperto. Io lo trovo nelle foto del cellulare che non si riesce a cancellare, anche quelle che sembrano non dire nulla e vengono lasciate, poi spuntano a tradimento.
Vuole sapere che aspetto ha? Cambia, mi creda. Prima è gradevole e seducente, profuma di essenze e odora di cucinato a cui ci si è fatta l’abitudine. Sa di piccoli rimproveri quotidiani, di liti mattutine sapendo che di sera si chiarirà e magari si farà l’amore. Questo prima. Dopo è un parassita succhiasangue che si occulta negli oggetti che non si sono buttati in tempo, negli spazi che prima davano conforto e adesso sanno di spine e rovi conficcati su un fianco. Sì, sono un killer. Uccido l’amore che non vuole saperne di andarsene. Ora mi scusi, devo lavorare, se vuole può attendere fuori.